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lunedì 31 luglio 2017

Più Politica - Rivoluzioniamo l’idea di cittadinanza: Il servizio garantisce la cittadinanza





 Rivoluzioniamo l’idea di cittadinanza:
«Il servizio garantisce la cittadinanza»


L’uguaglianza dei diritti politici e civili tra individui è un’invenzione moderna della quale Ius sanguinis e Ius soli sono facce della stessa medaglia.

“Cittadinanza” è la civitas latina, da civis[1], “cittadino”, ma semanticamente comprensibile a noi solo se sondata nella sua radice indoeuropea *ḱey-, che indica i verbi “sdraiarsi”, “stabilirsi”. Possedere la cittadinanza era dunque, in origine, sinonimo di legame territoriale e fisico. La giurisprudenza ne fece il simbolo dell’unione solidale tra i singoli e il loro costituirsi in un corpo concreto con obblighi e diritti ben definiti. Un valore pregiato, che, per definizione, non appartiene allo straniero se non come dono, concesso per gradi, oculatamente e per merito.
Nelle nostre forme statuali antiche, l’estensione dei diritti politici e/o civili a una qualsiasi entità prevedeva che essa stessa sostenesse l’onere della prova della bontà di tale operazione. L’acquisizione della cittadinanza da parte di un individuo, comunità, città o provincia imponeva un’azione giurisprudenziale (e dunque sacra) il cui peso gravava su chi aveva il potere di eseguirla, ossia sul governo stesso dei cittadini, il cui dovere era, innanzitutto, la difesa dello status quo ante. Era inoltre consueto, come ad esempio nella Roma repubblicana, che la cittadinanza si esprimesse a livelli diversi, corrispondenti ad altrettanti diritti, e che solo tramite il completamento di un intero percorso si arrivasse alla civitas optimo iure, ossia alla piena cittadinanza; allo stesso modo, le pene conseguenti a reati erano adattate alla posizione giuridica del cittadino[2].
Ai nostri giorni, la cittadinanza italiana è intesa come il possesso in pienezza dei diritti civili e politici espressi dalla “Repubblica Italiana” dal 1946. Fatte salve alcune particolarità, ormai quasi obsolete per questioni storiche, la cittadinanza si può ottenere soddisfacendo alcune condizioni, che qui appuntiamo: 1) secondo lo ius sanguinisossia automaticamente, per il diritto proveniente da un legame parentale diretto, ovvero nascendo o essendo riconosciuti o adottati da almeno un genitore già in possesso della cittadinanza; 2) per elezione: nascendo nel territorio italiano e risiedendovi ininterrottamente fino ai 18 anni; 3) per naturalizzazione, dopo un periodo variabili tra i 3 e i 10 anni di residenza legale, a secondo e in presenza di specifiche situazioni; 4) per matrimonio con un cittadino italiano, sempre in presenza di determinati termini. Fino al 1° gennaio 2005, era inoltre possibile chiedere la cittadinanza italiana dopo aver prestato il servizio militare o civile: la sospensione dell’obbligatorietà di questi ha comportato il venir meno di questa opzione[3] peraltro, a differenza che in altri stati europei, sempre poco sfruttata in Italia. Per esempio il padre di Emil Zolà e, venendo ai giorni nostri, il padre dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy ottennero la cittadinanza francese grazie al servizio nella Légion étrangère.
Ad oggi, ognuno degli itinera esistenti per l’ottenimento della cittadinanza cela mancanze dal punto di vista ideale.
La nascita da genitori italiani, che è ancora la situazione più normale e comune, permette di acquisire 
quasi totalmente i diritti civili e politici a 18 anni e, totalmente, al compimento dei 40[4]; nondimeno, 
lo ius sanguinis non soppesa il contributo fornito allo Stato (o alla comunità locale) dal singolo cittadino, i cui diritti sono completamente identici a quelli di ogni altro cittadino di pari età. Pertanto questo meccanismo ignora, per esempio, il carico di condanne per reati (con eccezioni riguardanti solo quelli molto gravi), e prevede limitazioni solo a quella minoranza che è soggetta a misure di prevenzione, detenzione, libertà vigilata, di divieto di soggiorno o per la quale è stata stabilità l’interdizione, spesso temporanea, dai pubblici uffici. De facto, la cittadinanza (e il diritto di voto) permane anche per la maggior parte dei detenuti; e, in sostanza, il cittadino che si impegna per la propria comunità, lavorando oltre che per sé stesso e la propria famiglia, anche in attività di volontariato, di politica, di cultura, ha gli stessi diritti di chi non ha mai svolto alcuna di queste azioni, o – peggio ancora – di chi ha provocato danni ad altri o al patrimonio pubblico.
Per analogia, il sistema attuale non richiede a chi ha acquisito la cittadinanza per elezione, 
naturalizzazione matrimonio, di essere tenuto a espletare alcun servizio, fosse esso per la comunità 
in cui risiede o per lo Stato. 
In altre parole, qualsiasi sia la ragione di ottenimento, la cittadinanza italiana si conferisce sempre in modo automatico e passivo, ovvero per nascita o tramite l’attesa dello scadere di un certo lasso di tempo.
Tale questione etica mette in luce come il dibattito circa il mantenimento dello ius sanguinis o l’introduzione di uno ius soli sia per noi di Domà Nunch, un dato superabile e superato. La differenza tra le due soluzioni, e tutte le loro possibili interpolazioni, si riduce, eventualmente, a quanto si dovrebbe ridurre o allargare le maglie per la concessione di questa forma di “cittadinanza passiva”, preceduta da nessuna azione buona e concreta. Se lo ius sanguinis poteva essere adatto a quelle forme statuali ottocentesche, di transizione tra comunità “tradizionali” fondate su valori medievali e le “nazioni” moderne, esso nacque come semplice fotografia della consuetudine, ossia del passaggio ereditario di diritti tra persone della stessa etnia o popolazione. Tanto quanto lo ius soli, che rende cittadino qualsiasi essere umano solo per essere stato partorito in un dato territorio, questo approccio non riesce più efficace e logico in contesti geopolitici aperti, come lo sono (volenti o nolenti) la maggioranza degli stati europei occidentali di oggi, resi privi di valori, confini e sovranità. Fatta questa considerazione, i sostenitori dello ius soli, scelgono questa opzione non tanto poiché vi vedano un qualche fondamento logico o un fatto giuridico sinceramente condivisibile, ma perché rappresenta, tra i due diritti, quello più incondizionato e simile all’ideologia globalista e anti-identitaria che professano.
Sia lo ius sanguinis che lo ius soli sono invenzioni del XIX secolo. Essi non hanno, se non nell’uso di locuzioni latine, nessuna relazione con forme di diritto tradizionale antecedenti la modernità. In ultima analisi, entrambi gli ius condividono la stessa logica di natura egalitaria che si ritrova nella “Costituzione” del ’46[5] e nella coeva invenzione dell’O.N.U., organizzazione voluta, pro domo eorum, da USA e Regno Unito per il governo del mondo post-bellico, dei “Diritti dell’Uomo”[6]; una filosofia, o meglio, un’ideologia idolatra, una “religione laica” auto-fondante e auto-fondata sulla sua stessa caratteristica di presunta universalità e inviolabilità. Si trattò di un operazione grandiosa, tesa a rendere gli uomini uguali (annullando quindi ogni differenza e valore tra individui, comunità, etnie, popoli e razze) in cambio di vaghi diritti proclamati “naturali” e metafisici - guarda caso - per lo più coincidenti ai valori condivisi dalle tre grandi religioni monoteiste e creazioniste. Per ragioni come queste, la cittadinanza moderna è un gigante dalle gambe di carta, poiché si basa su formule di linguaggio persuasivo, non sostanziate da un dato vero e mancanti di una giustificazione di ordine sacro.
È dunque giusto partecipare a questa ennesima divisione tra tifoserie e sostenere il mantenimento 
dello ius sanguinis o l’introduzione dello ius soli puro? Noi econazionalisti crediamo fermamente di no. 
Noi crediamo che se una forma di cittadinanza debba esistere, essa debba essere un valore; e che essa debba essere guadagnata tramite l’impegno e l’amore per la propria Patria. Cosa garantisce che questo sforzo si realizzi coscientemente?
Il servizio.
Si è sostenuto che, sotto Tiberio, un immigrato potesse divenire cittadino se avesse servito per sei anni le Cohortes Vigilum, il corpo che di vigilanza notturna e protezione degli incendi; che Claudio avesse concesso il privilegio a chi avesse armato una nave carica di grano da trasportarsi a Roma; che Nerone desse la cittadinanza a chi avesse portato decoro nell’Urbe costruendovi una casa; che Traiano considerasse romani quegli stranieri che avessero costruito un mulino e vi macinassero ogni giorno almeno cento moggi di frumento. Lasciamo agli storici di professione verificare quanto precise siano queste testimonianze; di sicuro, l’ottenimento della cittadinanza succedeva ad un atto gratuito che avvantaggiasse la Res Publica.
Allo stesso modo, noi di Domà Nunch, vogliamo che il percorso che porti il singolo al traguardo della piena cittadinanza sia contraddistinto dal dedicare il proprio tempo, fatica e intelletto alla cosa pubblica. Questo servizio, per esempio, potrebbe essere quello svolto al compimento del 18° anno d’età, anche indistintamente tra maschi e femmine, lavorando per un periodo pre-determinato nell'organizzazione militare o civile, così come del resto si faceva fino a poco più di un decennio orsono.
Dopotutto in Italia, come nella stragrande maggioranza degli stati, prima della maggiore età, il cittadino possiede già in potenza i propri diritti politici (ancora una volta, deve solo attendere), mentre può iniziare a utilizzare quelli civili. Tutto ciò è concesso senza alcun obbligo (a parte quello di frequenza scolastica, la cui diserzione comunque non preclude l’accesso al voto in futuro!). Il minorenne dovrebbe invece essere considerato all’interno di un istituto di diritto precedente a quello del completo cittadino; solo col passaggio alla maggiore età, simboleggiato dal servizio pubblico cui si sottoporrebbe, lascerebbe questo status; allo stesso modo, l’ospite straniero, qualora abbia avuto accesso legalmente al territorio statale, potrebbe, date alcune condizioni, avere la possibilità di svolgere tale servizio, e, al suo termine, chiedere la piena cittadinanza.
Un percorso come quello accennato, si potrebbe ricalcare con altre modalità e adattamenti per i coniugi stranieri, per i naturalizzandi, per i figli o nipoti di italiani emigrati che decidano di rientrare in Patria. Tali processi agirebbero in modo molto più sottile di quello che apparentemente sembra solo un pegno da pagare: gli effetti generali supererebbero la dimostrazione da parte dell’individuo della propria volontà e disponibilità a donare il proprio tempo per un premio meritato; il sistema, così come succedeva in età romana repubblicana, rivoluzionerebbe la rigida contrapposizione tra “cittadino” e “straniero” dando senso a nuove posizioni intermedie fondate sul significato valoriale dell’assimilazione del nuovo arrivato (sia esso tale anagraficamente o etnicamente), il cui epilogo può essere la piena cittadinanza. Essa diviene quindi elemento di giudizio, positivo o negativo, da parte della comunità (locale, regionale, statale) nei confronti del singolo. Inoltre, automaticamente, l’esistenza di istituti di cittadinanza così articolati e sfumati, necessiterebbe la produzione di regole precise: stabilire chi appartenga o meno alla comunità non può prescindere da una disciplina che normi l’accesso e i valori interni alla comunità stessa.
Da queste idee, a cascata, ne verrebbero indicazioni sulla gestione di casi particolari: per esempio, se un padre lavoratore diciottenne, dimostrasse la validità della propria azione quotidiana in seno alla famiglia e al paese dove risiede, potrebbe vedere equiparato questo impegno al servizio civile; oppure un infermo, dotato di capacità intellettive o tecniche tali da conferire prestigio con i propri lavori, potrebbe avere lo stesso merito di chi invece ha avuto la possibilità di agire fisicamente sul campo.
Un tale concetto di cittadinanza dovrebbe avere radici dalla comunità locale e quindi evolversi fino ad essere riconosciuto dallo stato, una volta completatosi appieno. Un esempio attuale di questa pratica ci viene dalla Svizzera, dove la cittadinanza si articola in tre livelli, l’uno esistente solo in conseguenza del precedente: la cittadinanza del Comune, del Cantone e della Confederazione. Le comunità locali registrano separatamente le persone che attengono al Comune, ossia che sono cittadini per diritto di sangue[7], da quelle che solo vi abitano e che quindi sono cittadini giunti in paese da un luogo altro; è possibile, in casi particolari, che uno svizzero sia cittadino contemporaneamente in più di un Comune. Il modello elvetico prevede inoltre ed esplicitamente (a differenza di quanto accade in Italia) che un naturalizzato dimostri, sottoponendosi a un colloquio con i rappresentanti della comunità locale, di essersi integrato con la vita in Svizzera, abbia familiarità con le abitudini, i costumi e le tradizioni, sia conforme alla legge e non costituisca pericolo per la sicurezza della Confederazione. Da ultimo - e qui si chiude il cerchio - tutti i cittadini maschi sono obbligati ad eseguire il servizio militare, che è svolto su base periodica fino ai 30 o ai 50 anni, in dipendenza del grado ottenuto.
Il confronto con l’Italia, dove vige la “cittadinanza passiva”, non regge. Ma la Svizzera non è l’unico stato europeo dove la pienezza di diritti va sudata: in Danimarca, dove la cittadinanza si ottiene superando un test, circa il 70% degli applicanti fallisce: Inger Stojberg, ministro all’Immigrazione, Integrazione e Casa, dichiarò nel 2016 che essere danesi è qualcosa di «davvero speciale» e che «la cittadinanza è qualcosa che va guadagnato»[8].
Curiosamente, una proposta di offrire agli immigrati la cittadinanza in cambio del servizio militare venne riportata dai quotidiani nel 2013[9], dall’allora Ministro alla Difesa del Governo Monti. L’idea trovò sostegno dalla sinistra e opposizione netta da parte della Lega Nord. Noi abbiamo spiegato come l’idea possa avere un suo fondamento, ma solo se inserita in un modello rivoluzionario nel quale la cittadinanza smette di essere un privilegio e torna ad essere un onore.



[1] ll diritto romano, almeno a partire dal III-II secolo a.C., distingueva tra cives, da un parte e hostes e peregrini dall'altra. Una distinzione capitale nel disegno politico della civitas: solo i cives[8] fruiscono di specifiche posizioni di vantaggio, possono contrarre iustae nuptiae ed avere lo ius commercii; solo ad essi compete lo ius suffragii, ovvero l'insieme dei diritti politici.
[2] È emblematico il caso di Paolo di Tarso che, durante i suoi viaggi, si annunciava come cittadino romano per non intercorrere in problemi con la giustizia locale; nel secondo processo a suo carico eseguito dai Giudei, egli si appellò direttamente al giudizio dell'imperatore, suo diritto in quanto cittadino romano.
[3] [http://www.esteri.it/mae/it/italiani_nel_mondo/serviziconsolari/serviziomilitare.html]
[4] Si deve infatti attendere i 25 anni per esprimere il voto attivo al Senato della Repubblica, e 40 per quello
passivo.
[5] Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
[6] Art. 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”.
[7] Il passaporto svizzero non riporta il luogo di nascita, ma il luogo di attinenza. Questo dato è significativo del fatto che per molti svizzeri il paese di nascita sia considerato un dato accidentale, in subordine al luogo dove sono spiritualmente conservate le radici famigliari, il più delle volte quelle paterne.
[8] [http://www.ilpost.it/2016/07/08/danimarca-test-cittadinanza/]
[9] La Stampa, Mauro: “Cittadinanza italiana in cambio del servizio militare”, 28/12/2013.


Articolo redatto da Domà Nunch
http://www.domanunch.org/

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